CEMENTO, VETRO E I COLORI DI MATISSE: le dinamiche cromatiche di Henri Ciriani



Contribution de Fabio Colonnese au colloque "Couleur et colorimétrie - Contributions multidisciplinaires", Florence 19-20 septembre 2013, publié par Maurizio Rossi ISBN 9788838762420. Pour une version en anglais publié chez Academia.org, suivez le lien ci-dessous:

Cement-glass... 

1. Introduzione


Henri Edouard Ciriani, nato in Perù nel 1936 da figli di emigranti friulani, è uno degli ultimi maestri della terza generazione, cresciuti in diretto rapporto con la generazione eroica del Movimento Moderno. Dalle monografie, dagli articoli e dal pomeriggio passato assieme [1], emerge una personalità estremamente strutturata da anni di professione e di insegnamento, che gli hanno concesso l’opportunità di organizzare il suo pensiero progettuale. È sufficiente sfogliare qualche suo disegno per capire come il colore costituisca un ingrediente fondamentale della sua proposta architettonica, utilizzato secondo molteplici modalità ma sempre in grande sintonia con il concetto che guida l’opera stessa. La policromia corbusieriana, con tutte le sue variazioni, costituisce il punto di partenza obbligato per un fedele seguace del movimento moderno, ma Ciriani non ha mai perso il gusto di interrogare  direttamente alla fonte le esperienze delle prime avanguardie figurative. Grazie al ruolo di mediazione del disegno, molte di quelle prime opere hanno inciso profondamente nella formazione di una coscienza progettuale e cromatica, in particolare nel contributo che il colore può svolgere nell’esprimere il movimento virtuale delle sue architetture [2]. 

2. Architettura, movimento e colore


La sua sensibilità sociale e la precoce partecipazione al raggruppamento interdisciplinare dell’AUA [3], lo rende presto consapevole del ruolo che il colore può avere nell’attribuire dignità e riconoscibilità all’edilizia sociale e favorire l’orientamento negli spazi pubblici, compatibilmente con budget limitati e scarsa manutenzione. I primi complessi di edilizia sociale progettati da Ciriani in Francia dimostrano la tipica fiducia nei materiali facciavista, ma già a metà degli anni Settanta, è possibile trovare una applicazione interessante della policromia già nella galleria dell’Arlequine a Grenoble (1973). Gli strati verticali che virtualmente compongono gli edifici attorno alla Cour d’Angle a Saint Denis (1978) sono invece identificati da trattamenti bicromatici a scacchiera e a strisce orizzontali, “omaggio a Giotto e ai marmi di Firenze” [4]. Nel corpo dell’asilo dipinto di un sorprendente blu e nelle porte dai colori vivaci è possibile individuare l’esordio di una coraggiosa policromia che tende ad attribuire uno specifico ruolo cromatico alle parte mobili, omaggio in questo caso a  Le Corbusier e ai pannelli verticali di legno verniciato del convento de la Tourette.

Altri germi di una ricerca cromatica si trovano nell’edificio a Noisy III, non tanto negli strati di logge e volumi in pannelli cementizi appoggiati sul massiccio parallelepipedo rivestito in mosaico marrone, quanto nei tre curiosi balconi sulla testata pitturati secondo la tricromia fondamentale della sintesi sottrattiva. È questo il primo segnale di un interesse specifico di Ciriani per gli esiti scompositivi della pittura neoplastica in grado di tramutare la massa in volume.

I progetti per i grandi concorsi parigini dei primi anni ’80 mostrano una programmatica tricromia giocata su rosso e blu saturi ed esaltata dai retini usati per le tavole di concorso (fig.a.1). Il blu torna ancora nelle case a schiera ad Evry (1981) ad indicare il volume sottratto dal corpo color mattone degli alloggi, mentre altri colori appaiono sugli sportelli basculanti dei garage. Lo stesso blu, “il blu del cielo”, è adottato per l’involucro triangolare del Musée Archéologique ad Arles (1983-92): le sue lastre vetrate sono pensate per riflettere il paesaggio naturale circostante e, allo stesso tempo, per smaterializzarne la presenza nel cielo, mentre i volumi secondari verdi si confondono con la bassa vegetazione circostante (fig.a.6).

Nell’asilo a Torcy (1986-89) il colore diventa il mezzo fondamentale per la corretta percezione del piano inflesso, quel sistema tettonico composto da un piano murato che passa dalla giacitura verticale a quella orizzontale di copertura e viceversa in modo leggibile [5]. Le prescrizioni cromatiche sono comunicate in cantiere per mezzo di grandi prospetti colorati accompagnati da piccoli schizzi prospettici. All’estradosso bianco-grigio che rappresenta l’ideale limite dell’involucro definito dal piano inflesso, corrisponde un intradosso generalmente colorato che individua lo spazio interno del recinto tridimensionale. La prospettiva centrale che illustra la hall del piccolo asilo segnala già la riscoperta delle geometrie e dei colori di Mondrian (fig.a.3) che avviene tra il 1988 e il 1992, quando Ciriani è impegnato in un ciclo di progetti urbani in Olanda (fig.a.4). Lo studio della pittura neoplastica segna una significativa maturazione nella sua policromia architettonica che lo induce prima a ripercorrere gli esperimenti corbusieriani del quartiere operaio a Pessac nella torre a L’Aia e nel complesso residenziale a Colombes, e poi ad una più meditata utilizzazione delle tinte colorate negli esterni e negli interni (fig.a.7).

Come l’ultimo Le Corbusier, Ciriani opta poi per una architettura neutra, grigia, nella quale ritagliare appositi spazi per le sue opere, come negli interni del Tribunale di Pontoise (1997-2005), dove il colore è concentrato in grandi pannelli colorati che trasformano intere pareti in un caleidoscopio (fig.a.8). Altrove sono le parti mobili ad essere pensate come vere e proprie opere d’arte, nella migliore tradizione delle porte monumentali, da Ghiberti e Filarete al Le Corbusier di Ronchamp e Chandigahr. Se potessi utilizzare soltanto il cemento, sarei molto contento. Farei degli edifici con le pareti che voglio trasparenti in vetro, libere, e le pareti che voglio opache in cemento. Mi basta questo. E poi si tratta di aggiungere qualche colore. Porte come quadri; se ogni porta o elemento mobile potesse essere dipinta da Matisse, che meraviglia…Cemento, vetro e porte dipinte da Matisse” [6].
 

3. Disegno, arte e colore

In più di una occasione Ciriani ha riconosciuto il suo debito nei confronti dell’arte ma sempre precisando che “non esiste un Ciriani pittore e un Ciriani architetto” [7], poiché “tutto quello che faccio, perfino i miei collage su carta, vuole diventare un edificio prima di essere una pittura” [8]. Piuttosto esiste un Ciriani dessiner, magnifico dessiner, che negli anni del liceo amava disegnare la città e gli animali e che ha costantemente copiato e analizzato i maestri per carpirne le eterne regole della composizione. Il disegno per Ciriani incarna da sempre la dimensione del gioco, della quête, della sfida: “mai accontentarsi di saper disegnare perché si corre il rischio di allentare la tensione tra cervello, occhio e mano” [9]. Il disegno di architettura, in quanto rappresentazione artistica, è soprattutto un modo per sorprendere il cervello e costringerlo a cercare nuovi significati alle forme percepite. Così, assai prima di essere steso come una pellicola di Ellsworth Kelly sulle superfici cementizie, il colore è steso sulla carta per differenziare gli elementi e di fissare le gerarchie, ma anche per anticipare l’effetto visivo e ingannare l’occhio.
È soprattutto attraverso le sezioni e le prospettive che egli determina le soluzioni progettuali più importanti, esplorandone in prima persona gli spazi immaginati. Nonostante sia stato affiancato negli anni da molti talentuosi collaboratori, le immagini dei suoi progetti sono tutte autografe e sono parte integrante del suo metodo di lavoro. Durante lo sviluppo della planimetria egli individua alcuni punti critici lungo il percorso principale e ne predispone delle viste prospettiche. A partire da queste basi, al massimo in formato A4 o A3, egli elabora numerose varianti, ogni volta disegnando personalmente l'edificio fin nei particolari, arrivando gradualmente alla definizione dei dettagli costruttivi che verranno poi messi in pulito nelle tavole degli esecutivi.

Tanta attenzione e pazienza nel disegnare ogni volta queste viste come se fossero delle tavole finali, con alberi, persone, nuvole e ombre, è necessaria ad esorcizzare la paura, insita nel mestiere, che il progetto non venga realizzato. Ciriani crede, ad un livello inconscio, che il disegno perfetto possa servire ad ingraziarsi le capricciose divinità che vegliano sull’esito del lavoro, come una sorta di rituale apotropaico.

I suoi disegni posseggono veramente una scintilla di vita, il potenziale di un intero universo. Le superfici disegnate mostrano sinceramente le disomogeneità del colore passato con i pennarelli Pantone su carta lucida, mentre le immancabili ombre portate e i sapienti colpi di matita bianca ne anticipano la futura percezione sotto il sole. I suoi alberi disegnati a penna rivelano la curiosità botanica di un novello Leonardo e sembrano selezionati da un repertorio personale altrettanto ampio. Ciriani non si accontenta di riportare delle generiche masse arboree ma rappresenta specifiche essenze, alla maniera dell’amico paesaggista Jacques Simon, finendo a volte con l’oscurare l’architettura stessa. Allo stesso modo il cielo non è mai solo un fondo colorato per far leggere una trasparenza o il profilo di un dettaglio architettonico, ma si arricchisce di nuvole, di ombre, di sfumature: altre volte esso si riempie di uccelli, mongolfiere o futuribili sfere volanti, altre volte sono dei morbidi tratteggi a pastello a riempirlo di vertiginosi mulinelli alla Van Gogh.

Certi suoi disegni ci ricordano la molteplicità delle categorie di Calvino e le qualità enciclopediche della scrittura di Gadda, in cui ogni oggetto secondario può divenire “il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite” [10].

“Bisogna lasciarsi trasportare dal colore. La mia ricerca attuale, il mio piacere, è di lavorare religiosamente col mio modo di fare non per trovare delle novità ma per trovare ciò al quale possa sentirmi affine” [11]. D’altronde già a Torcy l’amico Faloci, si rende conto che “l’uso del colore non è più quello del Bauhaus, né quello di una tradizione corbusieriana. Porta con sé un lieve aspetto metaforico e umoristico - il blu per gli uomini e il rosa per le donne – una parete gialla come un raggio di sole” [12], quasi a voler riscaldare il Nord. Mentre gli arredi fissi sono caratterizzati da un trattamento monocromo, la palette purista è sfruttata in tutta la sua ampiezza per esaltare la luce naturale e caratterizzare i fuochi visivi, forse anche per modificare illusoriamente la profondità. Ma tale policromia, confessa infine Ciriani, è soprattutto il risultato dell’esplosione “di uno o più quadri di Picasso che conservo in un sorta di memoria inconscia e la loro ricomposizione in inquadrature prospettiche” [13].
Mondrian, infatti, non può portare troppo lontano in architettura: i suoi colori primari sono troppo contrastanti e rendono difficile raggiungere un risultato armonioso, anche se il misconosciuto lavoro di Katarzyna Kobro offre una possibile strada per fondere assieme colore e forma. È piuttosto Eileen Grey nei suoi tappeti ad interpretare il principio neoplastico con colori che Ciriani sente più affini, come il rouge-lumiere, il giallo guscio d’uovo o il grigio blu.
Questo lavoro di trascrizione della pittura in architettura è un esercizio che passa sempre attraverso il disegno e il ri-disegno (fig.b.3). “Cerco di capire per quale motivo  mi sento scosso da un’opera e ridipingo il quadro sul mio taccuino, [come quando] sono stato alla mostra di Joan Mitchell, a Nantes. (…) Ne ho fatto dei disegni, li ho ridipinti a casa ed così che si impara. (…) Questo tipo di esercizio insegna che la cultura non viene semplicemente dall’aver visto una mostra: c’è del lavoro dietro” [14]. Eppure il disegno può essere un mediatore ambiguo, subdolo, che dipende concretamente dagli strumenti a disposizione, come quando si viaggia con quattro matite colorate in tasca. Così nella spasmodica ricerca di una immagine dal futuro, Ciriani ha scandagliato ogni genere di tecnica grafica, dall’aerografo ai pastelli colorati, dai pennarelli agli acquarelli e al guazzo. Il bianchetto del correttore da ufficio gli ha finalmente concesso il lusso di “sbagliare” e di poter sperimentare ogni genere di carta colorata (fig.a.2); parallelamente ha collezionato ritagli dalle riviste di moda, che offrono ampie gamme cromatiche, per ricordare un certo colore o per incollarlo sui suoi preziosi collage, soprattutto quando i suoi amati pennarelli si spengono improvvisamente.
I colori sul suo tavolo sono separati in due tazze: i “freddi” da una parte e i “caldi” dall’altra, ma alcune combinazioni e gamme negli anni si sono come decantate e hanno conquistato uno spazio speciale: “a) giallo girasole, nero, grigio-bianco, bianco; b) rosso, arancio, salmone o rosa, giallo pallido, nero e bianco” [15] e ancora il blu cielo o “Gauloise” e il verde-acqua di Matisse da accompagnare al nero, nelle tonalità fredde. Il colore verde trova difficilmente posto nell’architettura perché rimanda troppo all’idea di vegetale; ciò nonostante Ciriani confessa una profonda fascinazione per i blu e i verdi di Matisse quando dipinge in Marocco: le sue ombre, come quelle di Delacroix e altri viaggiatori, ombre irradiate di luce, ombre che contengono colori.
“La massima intensità si raggiunge quando il rosso e il blu sono insieme e quando si toccano è il paradiso. Mentre quando altri colori sono vicini tra loro, questi si uccidono. Per esempio sappiamo utilizzare poco il giallo. Ci sono tre gialli che restano molto specifici: il giallo acido che, se volesse essere altro sarebbe verde: dall’altra parte c’è il giallo che vorrebbe tanto essere arancione. Il giallo che vorrebbe tanto essere arancione uccide il lavoro del rosso. Così come quello che vorrebbe essere verde uccide il lavoro del blu, e non vanno mischiati tra loro. Esiste poi un giallo particolare tra i due che è il giallo del pacchetto dei cracker inglesi, il giallo de I girasoli dei Van Gogh e il giallo-sole, che è giallo-giallo e non vuole mischiarsi con nessuno” [17]. 


 4. Sculture cromatiche abitate

Gran parte delle esperienze progettuali di Henri Ciriani si possono ricondurre alla complessa e persino contraddittoria lezione del maestro Le Corbusier. Lo stesso può dirsi delle modalità e delle specifiche tinte con cui il colore è introdotto e applicato nella fabbrica architettonica, dal criterio purista a quello neoplastico, dalle parti mobili verniciate o trattate alla stregua di opere d’arte ai trattamenti materici e brutalisti sperimentati nel Museo a Péronne. Eppure, in qualche modo, la sua inesauribile curiosità per il “colore logico, legittimo, autoctono degli elementi architettonici” [18] e questa continua mediazione del disegno nel rapporto tra arte e architettura gli hanno assicurato una continua e personale rigenerazione della palette e dei criteri di applicazione del colore.
Le parole con cui Ciriani descrive la sua attitudine al colore denunciano la sua devozione al progetto, la sua empirica erudizione da praticante, la sua strumentale capacità di sottomettere ogni spunto e ispirazione alla qualificazione spaziale del progetto architettonico.
Tutto è questo è evidente nella produzione dell’ultima parte della sua lunga carriera in cui un nuovo interesse per il colore si è intrecciato con una specifica ricerca progettuale sulle strutture residenziali a torre, il cui esordio noto risale ad un vecchio numero della rivista Urbanisme del 1984 [19]. Oltre a ricucire certi fili interrotti della ricerca modernista sulle Unitè d’habitation e sulla Immeuble Villa il carattere utopico di questi progetti sembra aver catalizzato le sue più recondite e spregiudicate aspirazioni cromatiche. Naturalmente si tratta di progetti assai diversi tra loro, da grandi sedi universitarie e complessi di uffici e residenze, sviluppati in occasione di concorsi, mostre [20]; a volte sono nate come speculazioni spontanee, come rapidi scarabocchi su piccoli taccuini o fogli a4 successivamente ampliati attaccando altri fogli intorno.
In queste prospettive sistematicamente centrali il colore sembra proprio l’elemento ricorrente e dominante: un’idea di colore che può essere interpretata come una strategia di contestualizzazione – rivela un legame ancestrale con tessuti e textures Inca -, un modo per esprimere l’assemblaggio di parti diverse, un indicatore del molteplice nell’unità, uno stratagemma percettivo per produrre un movimento illusorio tra le parti e perfino come un pacifico ritorno ad un uso libero e pre-modernista dei colore e dei motivi decorativi sulla superficie esterna dell’edificio.
Queste immense sculture astratta abitate sembrano coltivare l’ambizione di restituire una espressione tridimensionale e infrastrutturale alle opere di Mondrian, quasi ad invertirne il processo di trasferimento della realtà sul piano matematico della tela; ma certamente essi sembrano recuperare le geometrie spezzate di Lauweriks o del suo allievo Hablik, che nelle prime decadi del novecento avevano prodotto interessanti esperimenti di suddivisione cromatica delle superfici esterne e interne. In secondo luogo essi inglobano le esperienze sui telai tridimensionali del primo espressionismo minimalista americano del dopoguerra portate avanti da Tony Smith e Sol Lewitt e, indirettamente, le più integrali e radicali interpretazioni di quel concetto di Land Art coniato per definire il lavoro nel territorio di un ristretto gruppo di artisti statunitensi alla fine anni Sessanta.
Le proposte più affascinanti riguardano le strutture a torre composte dall’accostamento e dall’incastro di grandi lame policrome che contengono cellule abitative duplex e triplex, telai tri-ortogonali che si sviluppano zigzagando nello spazio e ampie piattaforme dove le piccole figure umane si incontrano e si soffermano ad ammirare l’orizzonte e le foreste sottostanti (figg. 2b, 2d).
Ci sono tutti gli ingredienti delle visioni architettoniche utopiche del Novecento, anche se adeguatamente reinterpretati. Ci sono le montagne artificiali disegnate da Hugh Ferris per la Metropolis of tomorrow; ci sono le macchine volanti di Broadacre City di Wright; c’è il giocoso e dinamico Meccano delle provocanti proposte di Archigram; c’è il contrasto tra la megastruttura, con i suoi riferimenti rigorosamente cartesiani e modulari, e la rigogliosa natura dei fotomontaggi di Superstudio; ci sono perfino le inquietanti profezie urbane di Jean Giraud/Moebius. Soprattutto ci sono i colori spirituali e onirici della Alpine Architektur di Bruno Taut e degli acquarelli “della Resistenza” di Hans Scharoun che incontrano nei collage i cromatismi fotografici della Pop Art. C’è, infine, l’immortale mito della Torre di Babele e del sogno di offrire una rappresentazione aperta e polisemica alle infinite culture della Terra. Come immensi totem, axis mundi o alberi cosmici, le torri di Ciriani simbolicamente e concretamente offrono all’uomo una piattaforma da cui scrutare l’orizzonte.
Questi disegni sembrano infine voler offrire una occasione di incontro e riconciliazione per offrire agli esordi del nuovo millennio, la speranza di una nuova sintesi tra architettura, scultura e pittura, tra natura e costruzione, naturalmente, ma anche tra l’uomo e i suoi molti demòni.
 

Note

[1]    Il mio incontro/intervista con Ciriani ebbe luogo nel Cafè de la Marie in Place St. Sulpice a Parigi il 4 aprile 2007.
[2]    Secondo Ciriani, tutta l'architettura moderna nasce infatti dal movimento anzi da un doppio movimento: innanzitutto dal movimento dei piani che si spezzano agli angoli e si svincolano dalla scatola muraria tradizionale per costituire un diaframma poroso, dinamicamente continuo e asimmetrico; ma anche dal movimento del soggetto attorno e dentro all'edificio e quindi, più in generale, da un concepire l'architettura come sequenza di spazi lungo un percorso. Cfr. Fabio Colonnese, “Movimento Percorso Rappresentazione. Fenomenologia e codici dell’architettura in movimento”, Officina Edizioni, Roma, 2012.
[3]    L’Atelier d’urbanisme et d’architecture (AUA) è un raggruppamento multidisciplinare di professionisti, con un fine sociale, attivo a Parigi dal 1960 al 1986.
[4]    Luciana Miotto, “Henri E. Ciriani. Cesure urbane e spazi filanti”, Testo&Immagine, Torino, 1996, pagg. 34-35.
[5]    Mauro Galantino, “Henri Ciriani. Architetture 1960-2000”, Skira, Ginevra – Milano, 2000, p.151.
[6]    Cristiana Volpi (ed.), “Cinquantuno domande a Henri E. Ciriani”, Clean, Napoli, 1997, p.59.
[7]    Henri Ciriani, Laurent Beaudouin, Vivre haut. Méditation en paroles et dessin, Crossborders, Paris, 2011, p.125.
[8]    Christian Devillers, “Centro per la prima infanzia a Torcy di Henry E. Ciriani”, Casabella, n.568, 1990, p.15.
[9]    Intervista. Cfr. nota 1.
[10] Italo Calvino, “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, Mondadori, Milano, 2002, p.117.
[11] Ciriani, Beaudouin, op.cit., p.127.
[12] Devillers, op.cit., p.5.
[13] Ibidem.
[14] Ciriani, Beaudouin, op.cit., p.132.
[15] Ciriani, Beaudouin, op.cit., p.128.
[16] Ciriani, Beaudouin, op.cit., p.129.
[17] Ciriani, Beaudouin, op.cit., p.130.
[18] Ciriani, Beaudouin, op.cit., p.128.
[19] Christophe Bayle, Henri Ciriani: L’objectif, c’est l’horizontale, Urbanisme, n. 204, 1984.
Galería John Harriman del Centro Cultural Británico de Miraflores. Jr. Bellavista 531 - Malecón Balta 740, Miraflores, Lima, del 19 de Agosto al 30 de Setiembre de 2010.

Fig. 1 – (da sinistra a destra, dall’alto in basso) a. Opéra populaire de la Bastille, 1983; b. Residenze, Rekem, 1993; c. Asilo, Torcy, 1986; d. Torri residenziali, Groningen, 1991; e. Residenze Noisy III, Marne-la-Vallée, 1979; f. Musée Arquelogique, Arles, 1983; g. Residenze, Colombes, 1992; h. Citè Judiciaire, Pontoise, 1997.


Fig. 2 – (da sinistra a destra) a. Cerner, 2005; b. Nouvelle épaisseur, 2005; c. Carnet (3), 2006; d. Latéralité, 2009.


Fabio Colonnese est enseignant au Département d'Histoire, Dessin et Restauration d'Architecture à l'Université Sapienza de Rome.